Descrizione
presentazione di Stefano Catucci
120x180h mm, 67 pp., ill.
«Le parole di Hölderlin che a sua volta Heidegger ha ripreso e commentato – «seit ein Gespräch wir sind und hören miteinander» («da quando siamo un dialogo e ci ascoltiamo a vicenda») – aiutano a delineare il contesto di un incontro impossibile, quello fra Lord Byron e un tranviere romano.
Il luogo nel quale i loro percorsi si incrociano è preciso: il territorio del Nera, la Cascata delle Marmore. Il tempo ha una data, 5 marzo 2022, ma può essere una qualsiasi incidenza fantastica fra il mondo di ieri e quello di domani. La distanza che separa i secoli e le voci diminuisce con il passare delle parole ma, non potendo incontrarsi se non in una narrazione, si capisce che il dialogo può esserci solo perché in ciascuno dei due, internamente, parla già l’altro. Come se Lord Byron, nel suo viaggio in Italia, avesse avuto davanti agli occhi non solo il presente e la storia, ma anche l’Italia del futuro e quindi, come contraltare imprevedibile, anche un tranviere a venire. E come se il tranviere, che per sua stessa ammissione ha poca familiarità con la poesia, avesse dentro di lui qualcosa di Lord Byron: un’impronta del passato che gli parla attraverso la toponomastica di un belvedere, qualche strofa afferrata dal libro di metallo aperto su una panchina che fa da monumento al poeta, poche immagini da cartolina. Siamo sempre un dialogo, un “due-in-uno” che si esplica anche quando siamo soli con noi stessi, per riprendere una riflessione di Hannah Arendt, e che è fatto di parole altrui, ricordi vaghi oppure ben fissati nella memoria, proiezioni nel futuro, aspettative.
Sono proprio le aspettative quel che ci stimola a intraprendere un viaggio, mentre sono le sorprese positive o negative, le scoperte e le delusioni, a trasformare il viaggio in un’esperienza. Cosa aveva preparato le aspettative di Lord Byron? Ce lo ricorda lui stesso: letture classiche, da Virgilio a Properzio e a Plinio il Giovane, i resoconti di Goethe, un retroterra letterario che non solo trova conferma, ma si amplifica ulteriormente attraverso ciò che vede di persona. Cosa, invece, le aspettative del tranviere? La curiosità per un luogo mai visto prima e sentito solo nominare, una cascata, il programma organizzato di una visita al Santuario della Madonna di Loreto, l’idea di evadere per una volta da una città dalla quale non aveva l’abitudine di uscire. Il suo, però, è un seguito di delusioni, persino il fatto che la Cascata delle Marmore non sia naturale lo lascia con l’amaro in bocca: teme di ritrovarla sfatta e derelitta come le strade romane che nella sua percezione si sovrappongono fra loro proprio per come sono state forzate a deprimersi, vie come la Flaminia, la Tiburtina, l’Appia. La vista spettacolare di quella natura/non-natura, invece, lo rincuora, vera sorpresa in mezzo a una miriade di delusioni fra le quali può orientarsi solo facendo leva sul “tutto familiare” o “tutto uguale”: la porchetta di Ariccia anche lontano da Ariccia, per non parlare dell’onnipresente rivendita di mozzarelle di bufala campane, un’insegna di McDonald a rassicurarlo come segnaposto di un paesaggio standard.
L’architetto presta alla fine le sue considerazioni a entrambi i dialoganti. La voce di Lord Byron diventa quella della speranza, ovvero del progetto, parole che si dovrebbero accostare più spesso: che nasca un nuovo paesaggio capace di far nascere bellezza dal cumulo di segnali eterogenei diffusi sul territorio. Il tranviere incarna la voce dello spettatore, forte di quello scetticismo di cui da secoli si riveste lo spirito della romanità, non importa se sia una verità o una maschera. «Sarà», dice, mi pare difficile, ma poi quello che si vuole vedere in un luogo non è meno importante di quello che si va a vedere.
Sono questi i due soggetti interni a ogni architettura, tanto quella che costruisce quanto quella che ridisegna sistemi di relazioni. C’è il soggetto che progettando sogna e spera, e c’è il soggetto che abitando vive e osserva. Per una lunga stagione il pensiero architettonico ha cercato di mettere fra parentesi questo secondo soggetto, quasi volendolo ridurre alla sola dimensione del valore d’uso. Anche i più radicali fra gli architetti hanno però dovuto arrendersi di fronte alla forza trasformatrice del vissuto. È il caso di Le Corbusier, che vedendo sconciate le case da lui concepite per il quartiere di Pessac, a Bordeaux, finì per riconoscere che tra la vita e l’architettura alla fine è sempre la vita ad avere ragione, o almeno a far valere le sue ragioni in un modo che l’architetto non può né prevedere, né controllare: vedo una costruzione su pilotis, ma voglio vederla chiusa e trasformata in un garage, vedo una casa moderna con il tetto piatto, ma voglio vedere una casa bordolese con il tetto a falde e ci costruisco sopra.
Lord Byron e il tranviere sono più cauti, in un senso e nell’altro. L’incanto della cascata ha suscitato in entrambi un bisogno di bellezza da cui non vogliono staccarsi, sia pure con motivazioni e con pensieri diversi. Il viaggio, le fermate, le letture, oppure la voce importuna di una guida che parla a un microfono senza smettere mai, hanno consegnato loro la lezione della natura/non-natura: che vi sia un senso, che il progetto ricerchi “adeguatezza”, che il disordine venga ricomposto senza necessariamente eliminare le dissonanze. Così prende forma l’immagine del progetto stesso come dialogo, un percorso che dà spazio a entrambi i soggetti e che resiste alle attrattive del monologo.
Usciti di scena i due dialoganti impossibili, infatti, sale alla ribalta un dialogo vero, stavolta fra chi progetta e chi abiterà, fra i testimoni di ieri o dell’altroieri e i possibili abitanti di domani, per i quali l’eterogeneità del presente potrà diventare veicolo di senso e non di disorientamento. O, se si preferisce, di bellezza nuova.» (Stefano Catucci)