Descrizione
Formato 14,8×21, cm, 122 pp.
In questo testo, grazie ad un approccio multidisciplinare, gli autori Alex Revelli Sorini, Susanna Cutini, Francesco Vittorio Rebuffo e lo chef Shady Hasbun hanno cercato di classificare lo stile alimentare di Dante e Boccaccio. Le indicazioni rintracciate nelle opere dei due poeti e la relazione che essi avevano con il cibo potrebbe essere definita come: meditativa per Dante e conviviale per Boccaccio.
Analizzando la Commedia lo stretto rapporto tra cibo e meditazione si trova nelle citazioni alimentari, sopratutto simboliche. Scorrendo il Decameron il grande valore della convivialità è legato all’antropologia, alla vita economica e sociale, al galateo, alla cultura materiale, alle prescrizioni della dieta e della medicina, alla ricchezza e alla miseria.
Le ricette che troverete nella seconda parte del volume sono state rielaborate prendendo spunto dai primi manoscritti italiani di cucina del XIV sec. Questi libri esprimono una cultura già definibile come italiana, pur muovendosi in una logica più ampia, il modello suggerito non è di tipo locale bensì internazionale, una sorta di “koiné” con molti punti in comune e ricette ricorrenti nelle varie aree d’Europa.
Il superamento del concetto ristretto di “territorio” rappresentava nel Medioevo un obiettivo delle tavole dei ceti superiori, che ambivano a una cucina per così dire “artefatta” oltre le dimensioni locali. Questo modello non escludeva tuttavia la possibilità di individuare nel contesto europeo degli ambiti di identità culturale più “nazionali” e “regionali”.
Se sul piano politico l’Italia non esisteva, sul piano culturale era invece una realtà ben viva anche attraverso i sapori e i modelli del gusto.
I primi ricettari italiani del tempo hanno denominazioni di piatti che richiamano gli usi locali della penisola. Il più antico di questi, il meridionale Liber de coquina propone ricette di cavoli “all’uso dei romani”, verdure “all’uso della Campania”, fagioli “all’uso della Marca di Treviso”; fra gli ingredienti ricorda la semola pugliese e la pasta genovese, fra i prodotti il “composto lombardo” ossia la mostarda di Cremona. Altri ricettari trecenteschi ricordano il “pastello romano”, la torta “di Lavagna”, il sale di Sardegna e quello di Chioggia.
Attenzione però a queste denominazioni non possiamo dare totale credito geografico, perché in molti casi sembra si tratti di intitolazioni celebrative, scarsamente legate a specifiche tradizioni locali di cucina. Tali denominazioni – a prescindere dal reale significato di ciascuna di esse – mostrano comunque come si iniziasse ad avere l’esigenza del concetto di “specialità”.
Fu agli inizi del Trecento, probabilmente alla corte angioina di Napoli, che venne redatto il già citato Liber de coquina. Da questo ricettario, scritto in latino, ne derivarono altri, tradotti in lingua volgare con vari adattamenti alle realtà locali, come il Libro della cocina così detto Anonimo Toscano della fine del XIV sec.
Secondo molti storici il Liber de coquina è stato utilizzato, nelle sue diverse stesure, fino alla fine del XV secolo, conosciuto in l’Italia, Francia e Germania. Questa fortuna europea si spiega forse tenendo conto della lingua “internazionale” – il latino – in cui venne realizzato il testo. Per quanto riguarda l’Italia, l’ampiezza geografica della diffusione del libro è il segno – e in parte lo strumento – di una cultura gastronomica non certo omogenea, ma comunque condivisa.