Descrizione
20×20 cm, pp. 165, ill. a colori
Il passaggio dell’apparenza, dell’effimero, e, insieme, la persistenza. Questo circolo, questo flusso continuo e instancabile viene percepito attraverso l’arte, se per arte si intenda, richiamando la radice medesima del termine, produzione reale di manufatti, o di segni: lo stesso etimo di poesia ci richiama al fare, e questo ci dice quanto la concezione della creazione umana sia mutata nel corso dei millenni. L’artista figurativo possiede, per questo motivo, una visione complessiva, quella che con un fortunato termine da Kant in poi verrà chiamata Weltanschauung, visione o percezione dell’esistente, che il faber ricrea nella sua arte.
Anche di fronte all’opera complessiva di Franco Ranaldi si ha questa percezione di un mondo in continua trasformazione, fatto non solo di segni grafici e di tecniche rappresentative, ma anche di interpretazione, di “lettura”, di visione completa di quella che non è una realtà esterna, ma un universo in movimento. L’artista è parte integrante di questo cosmo, non semplicemente uno spettatore. E, paradossalmente, può rappresentare il dinamismo circolare attraverso la fissità dell’oggetto, perché sono due facce, dovremmo dire le infinite facce, in eterno movimento e trasformazione, della stessa medaglia. L’oggetto riprende magicamente vita attraverso l’interazione dello sguardo e la rappresentazione che, Pirandello lo aveva capito, è pur sempre un momento, una stasi nell’inesausto percorso vitale.
Basta guardare il Vaso con tulipani in un paesaggio per comprendere questa costante fusione di ciò che noi vediamo come piani separati e che in realtà è un tutt’uno: in una sorta di procedimento che in letteratura si chiamerebbe schidionata, racconto nel racconto, i fiori sono posti sì nel canonico vaso, ma all’interno di un paesaggio naturale: ciò che è stato colto ritorna, attraverso un effetto di straniamento che sarebbe molto piaciuto a Brecht, ma conservando lo stigma antropico dell’atto di essere strappato da quella terra cui sembra tornare nell’opera artistica. Il “grazioso” – e la facile captatio benevolentiae che ne deriverebbe – è espulso dal procedimento artistico di Ranaldi, a favore delle immagini apparentemente contraddittorie della persistenza, l’ulivo che attraversa i nostri secoli, e della caducità, il fiore bellissimo ma reciso e strappato dalla sua terra.
La contorsione dell’albero, altro motivo costante nella pittura di Ranaldi, è un segno che rimanda al movimento apparente del tempo, e alla concezione barocca di un crònos spietato e però artefice del mutamento, del movimento, della inesausta articolazione dell’esistente attraverso le forme. Questa unità circolare della poetica dell’artista è evidente anche in episodi come quello della Natura morta con cesto e ortaggi, ed è la prova provata dell’organicità di questa visione complessiva: peperoni, melanzane, peperoncini fuoriescono dal cesto, formando con esso una dinamica circolare suggerita dalla curvatura della superficie superiore del contenitore, da quella dei vegetali e dal loro insieme, perdendo la fissità epifanica – che pure in Morandi e Casorati aveva trovato uno dei punti di maggiore fascinazione nel Novecento – per simboleggiare l’inesausto movimento. Elementi dinamici che erano già in fieri nella produzione precedente a quella presentata in catalogo, ad esempio nell’Arancia aperta con gli spicchi che fuoriescono dalla buccia, e siamo nel 1998, in un movimento costante pur all’interno di un monocromatismo sfumato che sembra suggerire da sé la graduale dinamica circolare presente nel tutto. Fatta grazia delle gigantesche differenze epocali e tecniche, in opere come queste sembrerebbe – il condizionale è dettato dalla caducità delle accademiche separazioni in correnti – di assistere al nietzschiano eterno ritorno di un manierismo8che scuote e contamina la perfetta, apparente fissità dei maestri e inizia a rappresentare – e accentuare – il movimento, la deformazione dello spazio-tempo, l’inscindibile totalità di vita e morte. Anche nei diversi Girasoli questo procedimento di accettazione della mutevolezza è evidente nella assoluta e insieme provvisoria affermazione della forma compiuta, quella del girasole che sembra rappresentare l’essenza dell’accordo con il movimento cosmico, il cambiamento e il passaggio, con il petalo che inizia a curvarsi, a uscire dalla magnificenza caduca della perfezione della corolla.
Sta in questi pochi esempi l’essenza della narrazione di un viaggio che parte da alcuni maestri dichiarati e da varie suggestioni (Courbet, De Chirico e Guttuso, ma io aggiungerei anche l’altro De Chirico, Alberto Savinio e la metafisica, il Picasso soprattutto Blu e Rosa, Van Gogh, il post-impressionismo, il manierismo, solo per fare alcuni riferimenti) per approdare, come deve accadere in qualsiasi arte che si rispetti, altrove. Nel ritorno ad un cromatismo piano, apparentemente mimetico e in realtà al servizio di una poetica attenta alla visione interiore, in cui la rappresentazione dell’oggetto si unisce alla coscienza del suo passaggio. E alla riscoperta delle piccole cose al di là dell’ironia gozzaniana, ma anzi tesa ad una partecipe condivisione del passaggio: nel Riccio con castagne e farfalla il piccolo, il quotidiano, la bellezza si fondono con la percezione della melancholia di quel paesaggio dettata dalla soffusa luce di un tramonto. Le cose parlano attraverso la loro epifania, vale a dire la loro nuova rivelazione al di là dell’abitudine dello sguardo umano, come Virginia Woolf, Thomas S. Eliot, l’École du regard, come l’arte (basti pensare ancora una volta alla metafisica e soprattutto a Savinio), il cinema e la letteratura (e ovviamente le nuove ricerche dell’atonalità nella musica dodecafonica) andavano affermando.
Senza perdere di vista l’antico sintagma divenuto manifesto da Poussin in poi, e fatto proprio anche da Ranaldi, quel Et in Arcadia ego che qui è presente tra gli altri nella Persistenza di un ricordo, in cui il frammento marmoreo assume in sé il magistero della classicità ma anche qualcosa che va più indietro, alla sapienza eraclitea, e, a mio avviso, con un richiamo, chissà quanto inconscio, al ricordo ancestrale di una unità perduta presente in Anassimandro. L’Arcadia post-barocca e poi neoclassica ne è solo un suggestivo passaggio. Questa sensazione di unità complessiva dell’esistente è percepibile anche dalle numerose Ciliegie dipinte spesso con lo sfondo paesaggistico del luogo natale, Palombara Sabina, e della sua campagna, testimonianza intelligente perché appena suggerita attraverso la figura retorica della sineddoche, in questo caso nella rappresentazione di una parte, il frutto per eccellenza, al posto del tutto, Palombara. Anche qui riappare il simbolismo del ritorno e del movimento interminabile delle cose, attraverso quei rossi che vanno oltre il puro mimetismo cromatico per alludere alla terra, al sacrificio, al dolore dell’assenza e al desiderio del ritorno.
Proprio per questo l’arte di Ranaldi potrebbe anche essere intesa come tensione verso il ritorno a quella unità attraverso la consapevolezza della necessità della divisione e del passaggio. Nel passaggio è possibile cogliere le tracce di quella bellezza assoluta e ineffabile, e l’arte è forse il mezzo per riuscirvi, al di là delle parole e della loro incapacità di dire – lo sapeva bene l’Eliot del Canto d’amore di Prufrock (“non è per niente questo che volevo dire, non è questo, per niente”) – l’essenza del mondo.
Marco Testi è storico della letteratura e dei rapporti tra letteratura e cultura tra Otto e Novecento. È critico letterario per l’agenzia stampa della CEI, SIR, collabora con quotidiani e periodici nazionali e internazionali e insegna in una facoltà collegata alla Lateranense. Si interessa della visione dello spazio e dei luoghi in letteratura e dei rapporti tra letteratura e le branche del sapere in alcune epoche, in particolar modo tra letteratura, arte e concezione dello spazio. Il suo libro Una città come mito è stato tradotto in inglese nel 2000. Suoi anche i volumi sui rapporti tra paesaggismo e cultura generale tra fine Ottocento e Novecento, soprattutto su Ettore Roesler Franz: è stato per questo insignito del premio “E. R. Franz” nel 2019. Nel suo Altri piani, altre valli, altre montagne, 2006, ha approfondito con 40 tavole fuori testo i rapporti tra Federigo Tozzi, la letteratura e l’arte contemporanee. Il suo più recente volume è La cura. Il Libro come salvezza dalla solitudine e dalla paura, 2021, copertina di Placido Scandurra e prefazione di Tonino Cantelmi. Suo anche Sentieri nascosti (2019) con la copertina di Ennio Calabria e la prefazione di Franco Ferrarotti.